Il concetto della “supercompensazione” è uno dei più importanti per chiunque voglia allenarsi con misura e “intelligenza”. Si tratta infatti di un termine tecnico che sta a significare la capacità del corpo di assorbire il carico di allenamento migliorando le proprie performance, permettendo di rendere ancora più efficiente gli allenamenti successivi.
Per capire il fondamento di questo concetto, come funziona e come possiamo utilizzare al meglio i suoi vantaggi per migliorare l’efficienza atletica, lo spunto migliore ce lo offre l’ottimo lavoro di Yuri e Natalia Verkoshanski, disponibile su https://cvasps.com , che potete scaricare liberamente al link: https://www.verkhoshansky.com/Portals/0/Presentations/GAS2.pdf
Per spiegarne i principi e i vantaggi, i due autori propongono un’interessante carrellata storica per comprendere meglio come dai primi del ‘900 tale concetto si sia progressivamente evoluto fino ai giorni nostri con lo scopo di migliorare la qualità degli allenamenti.
Vediamone insieme i contenuti e la loro evoluzione:
1910: Cannon e l’omeostasi
Il fisiologo statunitense Walter Cannon, agli inizi del Novecento, coniò il termine “omeostasi”, molto usato in medicina, ovvero l’equilibrio fisiologico dei vari processi del corpo: pressione arteriosa, pH ematico, livelli di glucosio ecc. Inoltre, grazie a una serie di esperimenti, notò che gli esseri umani erano dotati di una risposta che definì “combatti o fuggi”: quando qualcosa all’esterno ci minaccia, il corpo automaticamente secerne ormoni adrenalinici che aumentano il battito cardiaco, la pressione sanguigna e i livelli di eccitabilità muscolare, al fine di combattere o scappare dalla minaccia imminente.
1936: Hans Selye e il concetto di stress
Negli Anni Trenta l’endocrinologo austriaco Hans Selye prese dei topi e li trattò con eroina, codeina, anfetamine, cocaina. Notò che al cambiare della dose e della droga, la risposta fisiologica dei topi era sempre la stessa. Selye definì questa risposta con il termine di “stress”, ovvero “la risposta fisiologica non specifica del nostro organismo a un agente esterno che ne disturba l’omeostasi”. Ma Selye notò anche che la risposta allo stress seguiva sempre un decorso in tre fasi:
Fase di allarme: l’organismo si rende conto che un agente esterno sta disturbano l’omeostasi.
Fase di resistenza: l’organismo avvia una serie di risposte fisiologiche per assorbire la forza dello stressor e ripristinare l’omeostasi.
Fase di esaurimento: la potenza dello stressor è troppo elevata o costante nel tempo e l’organismo crolla, sfociando in uno stato patologico.
Selye definì lo stress come “il comune denominatore di tutte le reazioni adattative del corpo” e produsse un elenco dei più comuni stressor in grado di creare una risposta di stress nel nostro organismo: esposizione al freddo; eccessiva attività fisica e muscolare; infortunio muscolare; intossicazione da droghe, alcol o sostanze chimiche.
Ma in che modo il nostro organismo reagisce con una risposta di stress? Sempre Selye propose che l’organismo risponde ad uno stressor con un’eccessiva risposta “combatti o fuggi” (come suggerito da Cannon) caratterizzata da eccitazione adrenergica, aumento notevole dei globuli bianchi nel sangue (soprattutto leucociti), ulcerazioni gastrointestinali e riduzione dell’efficienza del sistema linfatico.
Selye prese spunto dalla famosa frase del filosofo tedesco Nietzsche “ciò che non mi uccide mi rende più forte”.
1960: Lo stress applicato all’allenamento
Un articolo di Forbes Carlile, allenatore della nazionale olimpica australiana di nuoto, sollevò nel 1961 la questione dello stress e dell’allenamento. Se, come aveva detto Selye, l’eccessiva attività fisica e muscolare è uno stressor in grado di produrre una reazione di stress nell’organismo, allora la corretta gestione del carico di lavoro poteva produrre dei miglioramenti nell’atleta, senza mai sfociare nella fase di esaurimento, se si “gioca” con le fasi di allarme e con la successiva resistenza.
Prendendo spunto sempre da Nietzsche, potremmo modificare la sua frase (secondo la teoria di Carlile) come “ciò che non mi uccide mi rende più forte e questa cosa è l’allenamento fisico”.
1970: la scuola sovietica
Negli anni ’60-’70 l’URSS produsse un’incredibile serie di sperimentazioni e valutazioni negli atleti, dato che eccellere nelle competizioni era fondamentale per dare lustro al partito comunista, che vedeva nello sport un pilastro per combattere un diverso tipo di guerra fredda nei confronti dell’occidente. Fu così che nel 1964 Matveev, lo scienziato sovietico che per primo teorizzò la legge della periodizzazione dell’allenamento, sollevò notevoli critiche alla teoria di Carlile, poiché si basava sugli esperimenti di Selye che partivano da un concetto di reazione patologica dell’organismo e non di reazione positiva per la salute dell’atleta, come nell’allenamento. Negli studi della dottoressa Dasheva venne poi alla luce come l’atleta risponda in modo diverso al carico di allenamento in base a differenti condizioni pregresse (stato di salute, ansia competitiva, approccio mentale, monotonia dell’allenamento) e definì delle “soglie di adattamento”.
In sostanza, ciò che emerge dagli studi del periodo, lo stress dell’allenamento provoca un miglioramento nell’organismo dell’atleta in relazione a quanto questo sia sensibile ad esso in quel momento. Dasheva coniò il termine “workability”, cioè la capacità di un atleta di sopportare un determinato carico di lavoro.
Nel 1977 la fisiologa Garkavi andò a valutare l’impatto stressante di diverse attività fisiche e notò che la risposta fisiologica era diversa in base al tipo di attività fisica eseguita. Garkavi notò anche che vi era comunque un livello minimo di attività fisica (di qualunque tipo) necessario per forzare una risposta di allarme nell’atleta ed esisteva una soglia massima oltre la quale, qualunque tipo di attività fisica, sfociava in una risposta di esaurimento. Garkavi quindi definì che l’allenamento doveva essere uno stimolo adeguato a forzare la risposta di stress e l’esaurimento fisico poteva essere riferibile non solo all’intensità dello stimolo ma anche ad una frequenza eccessiva.
Sempre parafrasando Nietzsche, potremmo dire che, grazie alla scuola sovietica, siamo arrivati a definire che “ciò che mi rende più forte non mi uccide“.
Come funziona la supercompensazione e come applicarla
Grazie agli studi di Garkavi e di tantissimi altri scienziati dello sport, possiamo definire quindi la supercompensazione come la risposta fisiologica dell’organismo a uno stimolo allenante, che produce delle modifiche fisiologiche migliorative, in modo da poter sopportare un carico crescente.
In buona sostanza, quando ci alleniamo applichiamo uno stressor al nostro organismo, che subito dopo la seduta si trova in una condizione fisiologica peggiore di quando si è iniziato l’allenamento. Nelle ore successive il nostro corpo avvia tutte le modifiche strutturali per assorbire lo stress e riportare l’omeostasi. Allo stesso tempo queste modifiche migliorano la condizione fisica del corpo, che quindi si troverà in una condizione fisica migliore di quando abbiamo iniziato l’allenamento. Tale condizione fisica migliorativa è l’effetto della supercompensazione.
Quindi il primo concetto fondamentale da portare a casa è “l’allenamento è lo stress, e il riposo è il momento che produce il miglioramento”.
Se ci si allena troppo o troppo frequentemente, il nostro corpo non avrà il tempo di assorbire il carico e prima o poi finirà in una fase di esaurimento (overtraining).
Come abbiamo visto prima, il nostro corpo risponde in modo diverso a differenti attività fisiche. Ciò significa che la supercompensazione richiede tempistiche diverse per produrre i suoi effetti, a seconda delle diverse attività. Motivo per cui è auspicabile che non vengano mai eseguiti allenamenti simili tra loro in successione, ma alternati in termini di durata e struttura: ad esempio no a due allenamenti in successione con ripetute nella corsa, si invece a un lungo lento alternato alle ripetute.
Le tempistiche di recupero, ovviamente, sono solo teoriche, in quanto la supercompensazione è un fenomeno strettamente individuale determinato da ciò che viene definito “eterocronismo”.
Potremmo, ad esempio, essere estremamente efficaci nell’assorbire un carico di allenamento di resistenza aerobica ma molto lenti a rientrare dallo stress provocato da un allenamento della forza. Quindi è necessario organizzare gli allenamenti in modo che lo stimolo allenante sia diversificato e distanziato del giusto tempo necessario per realizzare la supercompensazione.
L’ultimo “take home message” che mi sento di suggerire in proposito è però il seguente: “occhio che il nostro fisico è estremamente adattabile sia nel miglioramento fisico che nel suo decremento”.
Se infatti il fisico non viene adeguatamente e costantemente stimolato, perderà i miglioramenti che ha acquisito con l’allenamento, poiché il nostro organismo ragiona sempre in termini di risparmio energetico e ciò che non serve lo riduce o lo elimina…
In termine tecnico questo aspetto si chiama “detraining” e il principio su cui si basa è la così detta “reversibilità”. In proposito vi consiglio di leggere anche l’articolo al link: https://www.trisportandhealth.it/2022/01/01/de-training-quanto-tempo-ci-vuole-per-perdere-la-forma-fisica/
Quindi, se è vero che lo stimolo allenante non deve essere troppo frequente, per evitare di allenare in una condizione di mancata supercompensazione, non deve nemmeno essere troppo distanziato, altrimenti ci si allenerà in una condizione fisica uguale o addirittura peggiore della precedente sessione. Questo produce sia il raggiungimento di un plateau di forma fisica stagnante (ci si allena, ma non si migliora) sia dei problemi legati a infortuni da sovraccarico.
In sintesi, riassumendo…
La supercompensazione è la capacità dell’organismo di assorbire un carico allenante e dipende dalla “workability” dell’atleta. Ogni allenamento ha bisogno di un tempo di supercompensazione specifico, che deve essere rispettato. Allenarsi sempre nello stesso modo, con un carico monotono, provoca una riduzione della “workability”. In maniera similare, un carico troppo frequente provoca una riduzione della capacità di supercompensazione. Quindi, per poter sfruttare al meglio la supercompensazione è necessario programmare gli allenamenti in modo corretto e soprattutto dare al riposo la stessa importanza che si dà all’allenamento.