Il triathlon può cambiarti (in meglio) la vita, ma non può essere un problem solving.

Quando il gioco si fa duro, i “duri” iniziano ad allenarsi: questa è la filosofia che i triatleti usano quando affrontano lo stress e le emozioni spiacevoli. 

Ti sarà capitato più di una volta di avere avuto una giornata terribile al lavoro o in famiglia che è poi incredibilmente migliorata dopo un allenamento. A me è capitato spesso…

È facile capire perché: dopo tutto, non c’è niente come allacciarsi le scarpe da corsa, agganciarsi ai pedali o tuffarsi in acqua per “anestetizzare” almeno momentaneamente i problemi che ci affliggono. Ci si sente così bene dopo un allenamento, che spesso si utilizza questo metodo per ottenere almeno una tregua quando non si è a proprio agio in altri aspetti della vita. 

Ma fino a quando questo meccanismo è fisiologico, e quando invece può diventare una vera e propria “dipendenza” per evitare di affrontare problemi più importanti? 

Uno studio di qualche anno fa su 323 triatleti suggerisce che il rischio che gli sport di endurance, e il triathlon è tra questi, diventino un vero e proprio sistema di fuga dalla realtà esiste, ed è dietro l’angolo più spesso di quanto si creda…

Il lavoro di Jiulia Schuler e dei suoi colleghi delle Università di Costanza, Zurigo e Berlino è uno dei pochi che hanno preso in considerazione il contributo psicologico alla base della dipendenza dall’esercizio fisico, nel quale i ricercatori hanno rilevato come gli atleti che riferivano di sentirsi insoddisfatti in un ambito della vita non sportivo (ad esempio il lavoro o il matrimonio) avevano maggiori probabilità di diventare dipendenti dagli sport più intensi. 

Come può succedere…? Tutto inizia con un ciclo di feedback negativo.

QUANDO L’ALLENAMENTO DIVENTA DISADATTIVO

Ciò che molti atleti ricreativi sperimentano spesso nella loro quotidianità è proprio il desiderio di “smaltire” le difficoltà quotidiane con una bella uscita in bici, una corsa o una nuotata in piscina.

Questo fenomeno, in realtà, è noto come “motivazione negativa”, che si basa sul desiderio di evitare sentimenti spiacevoli attraverso meccanismi compensatori, ed è proprio ciò che i ricercatori hanno scoperto essere una forza trainante nello sviluppo della dipendenza dall’esercizio. 

La paura di stare male, infatti, spesso spinge alcuni atleti a continuare ad allenarsi anche quando non dovrebbero farlo per mitigare le sofferenze della vita. Questo è un tipico meccanismo di coping disadattivo.

LO SPORT “ESTREMIZZATO” E I MECCANISMI DI COPING DISADATTIVI

Per comprendere meglio cosa può creare una “relazione anomala” di un atleta con gli sport di endurance, gli autori dello studio hanno utilizzato la consolidata teoria dell’autodeterminazione (Self Determination Theory, SDT) di Deci e Ryan. 

La SDT suggerisce che gli esseri umani hanno un bisogno psicologico di base di competenza, autonomia e relazione sociale. 

Quando questi bisogni non vengono soddisfatti, le persone spesso utilizzano meccanismi di coping disadattivi come bere alcolici, mangiare troppo, o altri comportamenti compensativi, tra i quali lo sport, specie se estremo. 

Il concetto di coping – traducibile letteralmente dall’inglese con “far fronte”, “fronteggiare”, “tenere testa” – è impiegato in psicologia per indicare una serie di comportamenti messi in atto dagli individui per cercare di tenere sotto controllo, affrontare e/o minimizzare conflitti e situazioni o eventi stressanti.

Per questa ragione, in psicologia si parla più precisamente di “strategie di coping” con riferimento, appunto, a quei meccanismi di adattamento e di risposta che una persona può adottare quando si trova in condizioni di stress di varia natura e/o particolarmente conflittuali.

Va precisato, tuttavia, che ciascun individuo reagisce alle situazioni problematiche in maniera molto soggettiva e che non sempre le strategie messe in pratica sono positive

A tal proposito, le strategie che mirano a ridurre in modo fisiologico lo stress vengono definite come “adattive“, mentre quelle che, invece, in qualche modo tendono ad aumentarlo vengono definite “disadattive” o di “non coping”.

QUANDO L’ALLENAMENTO DIVENTA DISADATTIVO

Nello studio di Jiulia Schuler, tutti gli atleti, di qualsiasi età e sesso, che si sentivano insoddisfatti e ansiosi in ambiti della vita non sportivi avevano maggiori probabilità di abusare dell’esercizio fisico, specie se intenso, per combattere sentimenti di paura, disagio e incompetenza, mettendo così in atto dei meccanismi di coping disadattivi.

In questo ambito, il triathlon potrebbe rappresentarsi addirittura come un “farmaco” potenzialmente perfetto per lenire le sofferenze psicologiche e sentirsi meglio. Il bisogno di controllo, continuità e motivazione che richiede, infatti, costituisce uno stimolo importante per tentare di migliorare la propria identità e competenza, ed è forse anche per questo motivo che molti atleti apprezzano sempre di più gli allenamenti ipercontrollati e basati sui dati, come ad esempio gli allenamenti sui rulli, assolutamente eccellenti nel fornire un senso di autonomia e competenza. 

È quindi facile abusarne quando non si riesce a percepire le stesse sensazioni da altre aree della vita quotidiana: in fin dei conti, un’intensa pedalata o una bella corsa costituiscono meccanismi di fuga molto efficaci e molto “facili” da sfruttare, piuttosto che mettersi ad affrontare la causa sottostante dell’ansia, del malcontento, dell’insoddisfazione.

COME NON ABUSARE DELLA PROPRIA PASSIONE

Evitare l’abuso della propria passione sportiva si riduce a una sola cosa: l’onestà

Per evitare di cadere nella trappola del coping disadattivo è necessario infatti prima di tutto essere onesti con se stessi, perché l’allenamento deve servire a creare salute e non a risolvere problemi insoluti.

Aggiungere sessioni di allenamento mentre ci si avvicina a una gara importante ha un senso, ma non ha alcun senso aggiungere sessioni “solo” perché ci si sente inadeguati o stressati riguardo al lavoro o preoccupati di fallire come genitori o con il/la partner.

Per questo è importante essere onesti per individuare dove si nascondono i bisogni insoddisfatti della vita non sportiva, cercando di affrontarli iniziando introspettivamente a rispondere in modo realistico anche alle domande più difficili che possono riguardare sé stessi e la propria vita lavorativa, sociale, familiare:

Sei stressato nella tua quotidianità lavorativa?

La tua carriera non procede come immaginavi?

La tua relazione con il/la partner è sotto pressione?

Hai una crisi esistenziale di mezza età?

Se non si è in grado di rispondere a queste domande, cercando in modo onesto una possibile e realistica via d’uscita, si rischia di non arrivare mai alla radice dei problemi cercando magari una via di fuga compensatoria solo nello sport e nella fatica. 

Premesso che è assolutamente possibile avere un rapporto sano con lo sport, e con il triathlon in particolare, che ha straordinarie potenzialità di equilibrato sviluppo fisico e mentale, per affrontare in modo ottimale e fisiologico le difficoltà che ogni giorno la vita ci propone, la chiave per non trasformare una passione sana in una dipendenza è ricordare che non si possono ricavare felicità, identità o senso di sé solo dallo sport. 

Nella vita, infatti, nessuna passione può rappresentare il “tutto”.