Nel corso degli anni, una notevole mole di lavori scientifici ha confermato che chi ha uno stile di vita attivo ha molte meno probabilità di soffrire di malattie cardiache e una maggiore probabilità di vivere una vita più lunga e più sana.
Tuttavia, poiché sempre più persone non più giovani continuano ad allenarsi duramente, sempre più a lungo e per sempre più anni, si è anche scoperto che con l’aumentare dell’età ciò può diventare un fattore di rischio importante per lo sviluppo di patologie cardiache di diversa entità, fino alla morte improvvisa.
In un mondo in cui molti atleti e triatleti si allenano per molte ore alla settimana per riuscire a sostenere eventi agonistici di lunga distanza, si è infatti constatato che il rischio cardiaco può assumere connotati diversi in base al numero di ore e impegno agonistico, con un punto di svolta in cui i benefici sembrano invertire decisamente la rotta, con una rischiosità che cresce fino ad avvicinarsi a quello di un individuo sedentario, secondo una curva J inversa, secondo la quale la mortalità diminuisce con l’aumento dell’esercizio, ma una volta che il volume e l’intensità dell’esercizio superano una certa soglia, la mortalità aumenta di nuovo (nella figura, la mortalità è sull’asse verticale, la quantità di esercizio è sull’asse X).
Per spiegare il fenomeno, sembra sussistano due possibili teorie, la prima delle quali consiste nella progressiva dilatazione e aumento di spessore del ventricolo sinistro, che se eccessivi possono provocare nel tempo un aumento del rischio cardiaco. La seconda ipotesi è che nel tempo l’intensità dello sforzo provochi danni alle cellule muscolari cardiache fino alla fibrosi più o meno estesa del miocardio in grado di provocare episodi aritmici anche gravi.
LO STUDIO
Il recentissimo Studio VENTOUX dei ricercatori dell’Università di Leeds nel Regno Unito ha fornito interessanti risultati in merito a queste ipotesi, e in particolare sulla frequenza di sviluppo di fibrosi cardiaca in atleti over ’50 e la possibile associazione con aritmie cardiache di vario grado.
Per ottenere ciò, sono stati reclutati 106 ciclisti e triatleti sani di età superiore ai 50 anni, sottoponendoli a periodiche scansioni cardiache e risonanze magnetiche per valutare la presenza o meno di fibrosi cardiaca, monitorando anche nel tempo il ritmo cardiaco ed eventuali aritmie mediante l’impianto per due anni di un Loop Recoder (ILR).
Ogni atleta è stato così monitorato in modo costante nel tempo, segnalando ai ricercatori l’eventuale presenza di aritmie.
I RISULTATI
Dei 106 partecipanti, il 47% aveva evidenza di fibrosi focale, ma l’emergere del fenomeno è risultato correlato solo all’età più o meno anziana dell’atleta e non al numero di anni di attività atletica o al numero di ore di allenamento per settimana. Durante il monitoraggio, il 17% ha sviluppato disritmie ventricolari, la maggioranza delle quali però di limitata entità e tutte senza alcun sintomo rilevato.
Lo studio ha confermato l’elevata frequenza di fibrosi cardiaca negli atleti di oltre 50 anni, ma senza evidente correlazione con la quantità o la qualità dello sforzo prodotto in allenamento, smentendo l’ipotesi che le evidenze della curva J inversa siano riferibili alla fibrosi del miocardio, anche se una quota ragionevole di atleti ha sviluppato nel tempoepisodi aritmici, e ciò può comunque rappresentare un aumentato rischio di morte improvvisa, specialmente quando il contesto è di per se ad aumentato rischio, come ad esempio nelle prime fasi della frazione di nuoto di triathlon o quando il cuore venga comunque impegnato ad elevata frequenza.
Ciò che risulta evidente, è che occorrerà approfondire ulteriormente questo problema, mentre si conferma di estrema importanza un’accurata visita sportiva periodica con un’attenta valutazione della situazione cardiaca, soprattutto con l’avanzare dell’età.