Qualche rischio strategico di troppo ha deciso il mondiale IRONMAN a Kona.

Assistendo alle gare dei pro, in contesti come quello dell’Ironman World Championship 2024, dove tutti si giocano tutto fino all’ultimo chilometro, complice la tv che segue passo passo tutte le fasi della competizione, è possibile capire molte cose in merito alle scelte strategiche, i cui effetti possono anche non sempre essere del tutto positivi, come invece sperano i tecnici del settore.

A Kona quest’anno si è visto davvero di tutto, dalla tecnologia spinta a livelli inauditi, a inediti setup delle bici, a nuove e talora discutibili scelte nutrizionali, e si è assistito a una gara davvero “brutale’, come è stata descritta da molti atleti, e non tanto per il percorso e per il clima, ma più probabilmente per la scelta di investire su una frazione bike “tutto o nulla” che ha influito non poco sulla gestione della maratona e sul risultato finale.

In merito, infatti, stupisce non poco la notevole percentuale di big finita nelle retrovie dopo la bici, primo fra tutti il campione del mondo in carica, oltre a una percentuale di DNF che supera il 22% sul totale dei pro. Una realtà difficilmente giustificabile solo dal clima di Kona, in questa tornata nemmeno troppo inclemente, o dalla difficoltà del percorso, che tutti conoscevano perfettamente, e che per questo non avrebbe dovuto rappresentare particolari sorprese. 

Emblematica poi la situazione della “scuola” norvegese, rappresentata da Kristian Blummenfelt e Gustav Iden, universalmente incensata negli ultimi anni per le scelte atletiche, tecnologiche e nutrizionali che hanno portato i due atleti a vincere ovunque. Entrambi hanno dovuto subire una debacle fisica senza precedenti, molto probabilmente dettata dalle scelte nutrizionali adottate, con Blummenfelt afflitto dal vomito incoercibile già dai primi chilometri in bici, come peraltro gli era già capitato quest’estate a Francoforte, che lo porterà a chiudere la gara stremato in 35^ posizione, e con Iden costretto addirittura al ritiro. 

Evidentemente questo mondiale ha visto altri motivi, per lo più tecnologici, nutrizionali, ma soprattutto strategici, che hanno estremizzato a tal punto la gara da renderla molto rischiosa per molti. Un po’ come se la maggior parte degli atleti presenti fosse andata alla ricerca di un risultato straordinario a qualunque costo, del tipo prendere o lasciare…

Un atleta del calibro di Gustav Iden che arriva a scrivere sul suo profilo Instagram “tutto quello che pensavo di sapere su questa gara era sbagliato”, e ancora “è stata un’esperienza assolutamente brutale e umiliante fin dall’inizio” non è normale… 

Proviamo allora ad analizzare alcuni aspetti che possono avere influito sul risultato finale, perché come mai prima d’ora il Mondiale IRONMAN 2024 ha visto i professionisti correre enormi rischi in termini di tecnologie inedite, ritmo e nutrizione, e come sempre a grandi rischi talora possono corrispondere gravi conseguenze.

Biciclette ai limiti della legalità, corone sovradimensionate e assetti inediti.

A parte le voci che si sono susseguite nei giorni che hanno preceduto la gara in merito alla particolare configurazione della bici scelta da Magnus Ditlev, ritenuta illegale dall’Organizzazione e successivamente modificata dai tecnici Scott, diciamo che forse la novità tecnica più eclatante ed evidente in questo IRONMAN World Championship di Kona è stata l’inedita (e molto diffusa) configurazione delle bici “high, clean and long” (alta, pulita e lunga), e l’avanzamento estremo dell’atleta in sella che essa produce, com’è evidente nella foto del prototipo di Canyon Speedmax CFR usata da Sam Laidlow.

Il prototipo di Canyon Speedmax CFR usata a Kona da Sam Laidlow con l’inedito cockpit. Foto da: https://www.instagram.com/ekoicycling/

Questo particolare assetto abbina una posizione in sella piuttosto alta, una sella estremamente avanzata, aerobar obliquamente alte, con appoggio esteso delle braccia, e una o due borracce impilate tra le braccia sotto la pancia, oltre a quelle collocate nel retrosella. La posizione anteriore delle borracce, capace di produrre un impatto estremamente positivo sull’aerodinamica, ha di fatto sostituito la scelta di inserirle nella parte anteriore del body, attualmente ritenuta illegale.

L’altro consistente “investimento dinamico” è consistito nella scelta di molti atleti di montare corone fino a 64 denti, capaci di sviluppare una potenza inaudita, ma che probabilmente hanno anche determinato la marcata esauribilità muscolare evidenziata durante la maratona da un’elevata percentuale di atleti, Sam Laidlow in testa. 

Si tratta, com’è evidente, di scelte ai limiti (che speriamo non vengano imitate dagli age group..), che potrebbero avere pesato non poco sulle dinamiche di gara, come vedremo più avanti. 

La corona a 64 denti della Canyon di Sam Laidlow. Foto da: https://www.instagram.com/triathletemag/

Il ritmo della frazione bike e le sue conseguenze. 

Come si è detto, è stata una gara “brutale”, soprattutto nella frazione bike, e in effetti abbiamo assistito a ritmi mai visti prima in questa competizione, probabilmente complici gli assetti e le scelte tecniche che abbiamo descritto.

Infatti, oltre allo straordinario tempo record di 3:57:22 staccato da Sam Laidlow, sette altri atleti hanno battuto il record del percorso ciclistico di 4:04:36 del 2022, mentre la bellezza di altri 21 atleti hanno surclassato il vecchio record ciclistico di Cam Wurf del 2018 di 4:09:06. Non so se mi spiego…

E dunque non c’è dubbio che lo sforzo e la potenza estrema erogata in bici abbia determinato profondamente gli esiti visti poi in maratona. Ciò che non si spiega è per quale motivo i tecnici abbiano scelto per i loro atleti una strategia di gara di questo tipo, ben sapendo i rischi ai quali andavano incontro.

Oltre a Sam Laidlow , dei primi dieci atleti più veloci nella frazione bici la metà ha infatti terminato a fatica il percorso della maratona, con un dispendio energetico probabilmente superiore a quanto preventivato. 

In una giornata tutt’altro che critica sotto il profilo meteorologico per Kona, dei 21 atleti più veloci in bici, tra cui Laidlow (3:57:22), Kallin (4:01:44), Thompson (4:05:28), Blummenfelt (4:05:49), Lopez (4:06:32), Madsen (4:08:09), Kanute (4:08:28), Olij (4:08:33) e Sanders (4:08:55), tutti sono andati più veloci di Wurf nel 2018. 

Tuttavia, nessuno di questi nove uomini è riuscito a portare a casa un solo centesimo del montepremi previsto, e il motivo è tutto nell’avere pedalato a ritmi infernali fino allo sfinimento (in alcuni casi letteralmente…) per poi implodere nella corsa e finire oltre i primi 15. 

Se non fossimo di fronte a grandi campioni e a squadre di tecnici super-titolati, ci sarebbe da chiedersi chi mai abbia potuto pensare di mettere in campo una gara con questo tipo di strategia. Eppure…

Tecnologia e nutrizione sul filo del rasoio.

Ma non c’è solo la frazione bike ad avere pesato sulle dinamiche di gara e sulla classifica finale, perché probabilmente molti hanno gestito male anche le strategie metaboliche e nutrizionali, soprattutto rapportate ai ritmi forsennati e alla potenza estrema prodotta in bici.

In proposito, è molto significativo quanto scritto da Ben Kanute, che ha chiuso solo in 31^ posizione, su Instagram: “in molti in bici abbiamo spinto la potenza più vicina al ritmo di un 70.3 anziché seguire il ritmo previsto in un IRONMAN, e poi in corsa ho pagato il pedaggio della bici. Dopo la mezza maratona il mio corpo ha detto no, ed è stata la mia peggiore maratona di sempre…”

Premesso che dal numero di borracce onboard è evidente che molti hanno optato per gestire buona parte del carico di carboidrati in modalità liquida, e che non sappiamo quanti abbiano scelto anche di sfruttare l’ipotetico vantaggio in termini di performance del bicarbonato di sodio, nuova frontiera nutrizionale, una cosa è certa: molti atleti hanno chiaramente sbagliato la gestione dell’integrazione energetico-salina, soprattutto se rapportata all’elevato wattaggio prodotto in bici, e altri hanno sofferto disturbi del tratto gastroenterico, sui quali non sappiamo quanto abbia influito l’eventuale uso di bicarbonato, con il vomito che ha inficiato pesantemente la gara di Kristian Blummenfelt (non certo una buona pubblicità per Maurten…) fino dai primi chilometri e anche quella di Laidlow durante la corsa.

Possiamo perciò attribuire con sicurezza un voto francamente negativo ai nutrizionisti di quasi tutti gli atleti in gara.

Ma c’è un ultimo aspetto che vale la pena di menzionare nell’ambito delle strategie tecnologiche applicate alla gestione metabolica degli atleti. Passata l’epoca dei sensori del glucosio (ricordate Supersapiens, che ha chiuso i battenti…?) e parzialmente caduto nell’oblio anche il rilevatore di consumo di liquidi ed elettroliti Nix Biosensor, adesso sembra sia il momento del sensore per la rilevazione della temperatura corporea. Il dispositivo di Core sembra infatti rappresentare una tecnologia emergente (o solo un nuovo sponsor…?) per consentire di gestire la gara in equilibrio termico. 

Il sensore, utilizzato da Kristian Blummenfelt, e con lui da altri cinque atleti tra i primi 10 classificati, non sappiamo ancora se abbia o meno una reale utilità, visto che anche Sam Laidlow lo indossava, e sappiamo com’è finita miseramente la sua gara, ma è un altro elemento che fa pensare a quanto si ricerchino sempre nuove tecnologie che consentano di andare sempre più “al limite”, senza possibilmente superarlo. Ma quest’anno a Kona molti il limite l’hanno superato eccome…

Continuo a stupirmi pensando che dietro a tanta tecnologia e dietro a mesi di preparazione fisica e nutrizionale seguita dai maggiori esperti del settore, si può finire per perdere malamente una gara importante per non avere seguito scelte nutrizionali adeguate al tipo di percorso, al clima e allo sforzo prodotto, o peggio per non avere seguito una delle strategie fondamentali del triathlon rappresentata dal necessario equilibrio della potenza espressa in bici per garantire una maratona efficace. Strategia che è stata invece seguita in modo esemplare da una vecchia volpe come Lange…

Parzialmente tratto da un articolo di Chris Foster, editor-in-chief di Triathlete Magazine.