La salute è nel nostro intestino

In un mondo che non fa che parlare di alimentazione, spesso a sproposito, e dove la maggior parte delle riviste e delle trasmissioni televisive occupa gran parte degli spazi per trattare argomenti di cucina, quando si pensa al cibo si pensa al piacere della tavola, al gusto delle diverse preparazioni e al piacere di condividere un buon piatto con gli amici. Se però si dà un’occhiata approfondita alla più recente letteratura scientifica, in particolare quella dedicata alla nutrizione e ai rapporti tra cibo e salute, non si può non essere attratti dal grande interesse rivolto al ruolo che i batteri intestinali sembrano giocare in una serie infinita di aspetti della vita di tutti i giorni, dai primi mesi di vita alla vecchiaia. Insomma, se si pensa al cibo sotto un profilo diverso da quello normalmente evocato dai media, è facile rendersi conto che quando mangiamo non stiamo solo alimentando il nostro corpo, ma i miliardi (sì, proprio miliardi…) di batteri che vivono nel nostro intestino, i quali numericamente superano le cellule del nostro organismo in un rapporto di 10:1, e hanno un ruolo insostituibile in una serie di meccanismi fisiologici indispensabili per garantire il benessere quotidiano, tra cui la funzionalità stessa dell’intestino e la produzione di importanti microelementi e vitamine. Si tratta del così detto microbiota intestinale, termine tecnico che si riferisce a una popolazione di microrganismi che colonizza un determinato distretto corporeo, e che deve essere distinto dal microbioma, termine usato spesso a sproposito, in quanto è invece l’espressione del patrimonio genetico posseduto dal microbiota, cioè dei geni che quest’ultimo è in grado di esprimere. Si tratta, com’è evidente, di due cose nettamente differenti e non intercambiabili, come invece spesso sono soliti ritenere la maggior parte dei media, e non solo.

Ebbene, tra le tante attività del microbiota intestinale, quella che forse stupisce maggiormente è che questa comunità batterica funga da “hub di segnale”. Che significa? Significa che questa popolazione batterica, assolutamente eterogenea, è in grado di produrre neurotrasmettitori che parlano con il cervello. Sembra, infatti, ormai assodato che siano soprattutto gli acidi grassi a catena corta (SCFA), i principali metaboliti prodotti dalla fermentazione batterica delle fibre alimentari, a rappresentare il canale comunicativo principale tra intestino e cervello. Non per nulla, dunque, da sempre si ritiene che l’intestino rappresenti il nostro secondo cervello! Tutto ciò, anche se non ancora del tutto chiaro sotto il profilo dei precisi meccanismi, sembra avere un impatto importante sulle nostre emozioni, sul comportamento, sull’umore, sul controllo del metabolismo e sull’equilibrio immunitario. In una recentissima review, pubblicata sulla rivista Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology, è stato riassunto tutto ciò che oggi sappiamo sui meccanismi con i quali gli SCFA regolano le comunicazioni tra cervello e intestino, compreso il modo in cui influenzano i sistemi immunitario, endocrino e nervoso. I microrganismi intestinali, spesso nel passato ritenuti prevalentemente nostri nemici, perché in grado talora di produrre malattia da infezione, in realtà possono essere, e sono, più spesso nostri alleati. Per non distruggere questo inestimabile patrimonio è necessario perciò fare in modo che tutto quello che può nuocere a questa comunità batterica sia il più possibile evitato o limitato, a cominciare dalle terapie antibiotiche, talora utilizzate indiscriminatamente e per lunghi periodi in contesti nei quali se ne potrebbe fare a meno, che vanno ad impattare pesantemente sull’ecosistema intestinale, producendo danni qualche volta difficilmente riparabili.

La disbiosi intestinale, termine con il quale si intende la modificazione in termini quantitativi e qualitativi della popolazione batterica intestinale, è uno stato fisiopatologico che predispone ad una serie di disturbi, spesso molto importanti. Tra questi, spiccano per frequenza gonfiore, stitichezza, diarrea, riduzione della forza, malessere generale, cambiamenti dell’umore, disturbi del sonno, fino ad arrivare nelle donne a cistiti e candidosi vaginali recidivanti.

Abbiamo ancora molto da imparare e da sperimentare sul microbiota prima di poter dire con esattezza come effettivamente esso sia in grado di interagire con diversi meccanismi che consentono di mantenersi in buona salute.
Però forse ciò che leggerai di seguito potrà essere d’incoraggiamento quantomeno per mangiare meglio, per investire in un intestino il più sano possibile, tanto più se sei uno
sportivo, e ancor più se sei un atleta di gare di endurance.

Partiamo dall’inizio, cioè dalla mamma.
I piccoli nati mediante taglio cesareo non sono esposti ai microrganismi che vivono nel canale del parto della madre. Di conseguenza, il loro microbiota differirà in modo sostanziale dai bambini nati per via vaginale. Ciò sembra avere un impatto importante sullo sviluppo del loro sistema immunitario, con una maggiore frequenza di episodi di asma e allergie.
La ricerca di laboratorio, inoltre, indica che una dieta in gravidanza ricca di grassi saturi (si pensi al “cibo spazzatura”) influisce sui batteri che vivranno nel tratto intestinale del bambino. Il diverso assetto dei microrganismi intestinali che si viene a generare sembra influenzare il comportamento dei nuovi nati, in particolare se maschi, che diventano più ansiosi e meno sociali. Il suggerimento più scontato per le gravide non potrà che essere quello di mangiare meno cibo spazzatura e allattare i propri bambini per aiutare a creare un intestino sano per uno sviluppo più armonico ed equilibrato.

Uno degli aspetti più studiati sull’attività del microbiota intestinale è il rapporto tra la tipologia di popolazione batterica presente e l’obesità. Sperimentalmente si è infatti constatato che, quando i microrganismi di un topo grasso vengono trapiantati in un topo magro, il topo magro ingrassa, e viceversa. Infatti, i microrganismi di un topo magro trapiantati in un topo grasso lo aiutano a perdere peso.

Firmicutes e Bacteriodetes sono le due tipologie di batteri prevalenti nel microbiota intestinale normale, però un’elevata presenza di Firmicutes è dimostrato essere correlata alla tendenza all’obesità. Perciò è razionale pensare che un’alterazione del microbiota possa giustificare il motivo per cui alcune persone ingrassano più facilmente di altre e perché altre viceversa rimangono magre.

Quanto il cibo spazzatura influisca sulla qualità della popolazione batterica intestinale e come questa possa a sua volta apparentemente contribuire all’aumento di peso generalizzato dei bambini delle nostre società industrializzate, rispetto alle popolazioni africane, è ben rappresentato graficamente nella seguente figura, tratta da un impostante studio pubblicato nel 2013 su una prestigiosa rivista scientifica. Si tratta del confronto tra la componente batterica del microbiota di bambini di Firenze in confronto con bambini del Burkina Faso. Come è evidente, i batteri che compongono il microbiota dei piccoli delle due diverse aree geografiche sono notevolmente diversi in termini di tipologia e quantità. Nella nostra popolazione, infatti, prevalgono i Firmicutes, che abbiamo detto essere i responsabili della tendenza all’obesità, mentre nella popolazione africana la prevalenza è a carico dei Bacteroidetes. A questo punto, però, la domanda potrebbe essere duplice: è il microbiota che contribuisce all’obesità, o è l’obesità che modifica il microbiota?

Un altro aspetto correlato alla salute del microbiota è rappresentato dalla motilità intestinale. Pensate a costipazione e diarrea, spesso dovute a meccanismi mediati dal cervello, tramite i trasmettitori biochimici prodotti dai batteri intestinali. Mentre infatti molti problemi intestinali iniziano nell’intestino, altri iniziano nel cervello. In ambito sportivo, pensate ad esempio allo stress mentale che si verifica prima di un evento importante che spiega le lunghe file ai servizi igienici prima di una competizione. Ebbene, in laboratorio i topi nutriti con bifidobatteri sono diventati meno ansiosi e sono stati in grado di risolvere meglio i problemi, come ad esempio uscire da un complesso labirinto rispetto al gruppo di controllo, ma anche gli esseri umani, dopo integrazione della dieta con bifidobatteri hanno dimostrato livelli più bassi di cortisolo mattutino (un ormone legato allo stress) e si sono dichiarati meno stressati. Ciò significa che, in futuro, potremmo assumere probiotici, o meglio “psicobiotici”, anziché farmaci ansiolitici?
Ovvio che è un po’ prematuro ragionare in questi termini, ma è certo che intervenire in modo mirato sulla composizione del microbiota potrebbe essere in futuro la chiave di volta per risolvere molti dei problemi clinici che ci affliggono quotidianamente, senza subire gli effetti collaterali dei farmaci di sintesi.

Disbiosi e performance atletica

Una recente review (Endurance exercise and gut microbiota: a review – Journal of Sport and Health Science) di tutti gli articoli pubblicati sugli effetti dello sport a livello della flora batterica intestinale induce a porsi una domanda: qual è il nesso tra performance e alterazioni del microbioma?
Si sa che l’attività sportiva può dar luogo a effetti positivi (condizionamento cardiovascolare, biogenesi mitocondriale, aumentata sensibilità all’insulina) come pure negativi (aumentato stress ossidativo, disidratazione, immunosoppressione, incremento della permeabilità intestinale, aumento dei mediatori infiammatori) e che questo dipende
molto dalle condizioni basali dell’atleta come pure dall’intensità e dalla durata dell’attività svolta. Un aspetto che molti atleti professionisti (e molti medici sportivi) sottovalutano è l’importanza dell’eubiosi intestinale per il raggiungimento della massima performance atletica. Non si dimentichi, infatti, che gli acidi grassi a catena corta (SCFA) prodotti ad
opera del microbiota intestinale, oltre a fungere da meccanismo di trasmissione dei segnali al cervello, rappresenta uno dei modi più efficaci che l’organismo mette in atto per incrementare i propri livelli energetici.
Un’adeguata produzione di SCFA serve anche a diminuire gli effetti delle citochine infiammatorie, a regolare le funzioni dei neutrofili e la loro capacità di migrazione, a migliorare le capacità di smaltimento dei radicali ossidativi da parte delle cellule e ad incrementare l’immunità in generale. Perciò, ogni volta che vediamo un inspiegabile peggioramento della performance in un atleta, è importante valutare attentamente anche lo stato della sua flora batterica e la sua funzionalità intestinale.
Quanto conti la qualità della dieta sportiva sulla qualità del microbiota è presto detto: quasi tutto…
La soluzione migliore, infatti, per garantire un buon equilibrio del microbiota è nutrirlo, così come i muscoli, con porzioni generose e “qualificate” di carboidrati ricchi di fibre ottenibili da frutta, verdura, legumi, fagioli e cereali integrali. Oppure lo si farà in modo naturale quando sarà preferito, ad esempio, uno spuntino con frutta secca, anziché con biscotti. L’obiettivo futuro della ricerca nel campo della nutrizione sportiva è quello di arrivare tra qualche anno ad offrire un’alimentazione personalizzata basata sul microbiota di ciascun atleta. Fino ad allora, sappiate comunque che una dieta sportiva di alta qualità è la stessa dieta che supporterà la buona salute dell’intestino, così come le migliori prestazioni sportive.

Quali prospettive per il futuro?

L’idea che si possa pensare di intervenire sulla composizione del microbiota per controllare o risolvere disturbi o malattie finora gestibili solo con farmaci di sintesi, afflitti spesso da importanti effetti collaterali, è molto attraente, e la ricerca sta lavorando in modo esteso su questo aspetto. Al momento, però, sappiamo molto (ma non tutto) in termini di potenziali meccanismi controllati dal microbiota, ma non abbiamo ancora gli strumenti giusti per intervenire terapeuticamente mediante il giusto apporto di probiotici mirati. Ho scritto “probiotici” e non “fermenti lattici”, come spesso si sente dire anche da specialisti qualificati, perché le due definizioni di popolazioni batteriche, per certi versi
simili, sono in realtà assolutamente diverse in termini di potenziale attività terapeutica, che è propria solo delle specie probiotiche.
L’attuale tendenza all’utilizzo di probiotici è mirata in prevalenza all’utilizzo di specie batteriche e quantità assolutamente inadeguate in molte situazioni cliniche. Il futuro è quello di lavorare per individuare l’attività terapeutica specie-specifica di uno o più specie batteriche su un determinato disturbo o patologia, utilizzando poi l’integrazione
con questi particolari ceppi batterici, e non altri, per risolvere il problema. E’ il vero nuovo filone della ricerca che dovrà portare all’utilizzo mirato dei probiotici, un po’ come si usa fare oggi con i farmaci. Questa è la vera sfida per il futuro.
Rimanete sintonizzati, perché parleremo ancora di questo argomento.